Abbiamo un patrimonio culturale importante e sconfinato. Una certezza
che, a forza di ripeterla, è diventata una litania. Ebbene, nonostante questo,
quando si parla di arte il nostro Paese ha imboccato nell'ultimo secolo (dal
1900 al 2000) una ripida parabola discendente, che l'ha portato dal primo
all'ultimo posto. Neanche la rendita di posizione è riuscita ad evitare questo
«declino storico», che ha fatto crollare le nostre quotazioni nel settore
artistico. È uno dei dati più sconfortanti fotografati da "Indice
24", il parametro messo a punto da Pier Luigi Sacco, docente di economia
della cultura allo Iulm di Milano, utilizzando l'archivio digitalizzato
Google-Harvard, che contiene più di 8 milioni di volumi in lingua inglese.
Lo studio ha permesso di costruire degli indicatori di competitività
simbolica, nel senso che associando termini come "arte",
"musica", "architettura", "cinema",
"design", "moda" e "food" al nome di un
determinato Paese e ripetendo la medesima operazione con altre realtà, si può ottenere
una prima misura di quanto – sottolinea Sacco - «una certa area di produzione
di contenuti nel contesto globale» sia presidiata all'interno di ciascun
confine nazionale. Da specificare che i valori non vanno letti in termini
assoluti, ma relativi.
Oltre all'arte, una perdita analoga si verifica per l'architettura,
mentre tengono settori come il design, la moda e il cibo, che sono comunque
tipici del made in Italy, seppure si rimane al di sotto dei livelli dei Paesi
ai primi posti nella classifica.
La perdita di posizioni del nostro Paese nel campo della produzione
culturale fa il paio con con la diminuzione di appeal del marchio Italia. Lo si
può verificare – spiega Sacco – ricorrendo al Country brand index, pubblicato
annualmente da FutureBrand: nella classifica 2011 dei primi dieci brandPaese,
l'Italia era al decimo posto, seppure due posizioni più su rispetto all'anno
precedente.
Può parzialmente consolarci il fatto che l'indicatore di attrattività
culturale, costruito utilizzando Google Trend, fotografi una situazione
abbastanza omogenea: nei principali Paesi europei l'attenzione verso la cultura
punta, negli ultimi anni, decisamente verso il basso (si vedano i grafici a
fianco). Dato consolatorio che, però, è prontamente ridimensionato dal fatto
che l'Italia, pur con la storia e i monumenti di cui dispone, è al livello più
basso dell'indice.
L'immagine che si percepisce oltreconfine è, dunque, quella di «un
Paese mediocre che vive sulle spalle di un grande passato». Per rovesciare
questa percezione sarebbe necessario riportare la cultura al centro
dell'attenzione, facendo risalire posizioni alla produzione culturale e
creativa, che invece oggi viene vista come improduttiva, alla mercè dei sussidi
ottenuti dalla redistribuzione del valore generato da altri ambiti.
Una visione che non corrisponde alla realtà, perché – come segnalano i
dati contenuti nella ricerca Unioncamere Fondazione Symbola, utilizzati da
Sacco nello studio che ha generato "Indice 24" – il sistema delle
industrie culturali e creative nel 2011 ha generato valore pari al 5,4% del
Pil, che arriva al 15% se si considera una nozione allargata di filiera
culturale e creativa, includendovi turismo, educazione, produzioni tipiche,
attività edilizie in aree di pregio storico-artistico.
Più nel dettaglio, il fatturato dell'industria culturale equivaleva
(sempre nel 2011), al 2,51% del Pil, mentre quello della filiera creativa
corrispondeva al 2,54% (lo scarto rispetto al 5,4% complessivo è attribuibile
al fatturato del settore culturale non industriale). Sulla base di questi dati,
si può, secondo Sacco, dire che il moltiplicatore culturale è pari a 1. In
altri termini, «per ogni euro di fatturato prodotto dall'industria culturale si
generano contenuti che contribuiscono a produrre un ulteriore euro di fatturato
nell'industria creativa». È, invece, pari a 2,77 il moltiplicatore creativo,
cioè «per ogni euro fatturato dalle industrie creative, i contenuti da esse
prodotti contribuiscono a generare un ulteriore fatturato indotto di 2,77 euro
di media».
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